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- LA DIETA CHETOGENICA E IL MICROBIOTA INTESTINALE
di Stefania Cazzavillan
Il microbiota intestinale è evoluto con noi ed è il prodotto di migliaia di generazioni di co- evoluzione.
L’evoluzione ha agito non solo sull’espressione dei 23.000 geni circa che compongono il nostro genoma, ma sui quasi 4 milioni di geni (umani e microbici) che agiscono in modo cooperativo. Oggi noi siamo il risultato di questa co-evoluzione.
L’ambiente nel quale siamo evoluti ha richiesto regolari cambiamenti alle condizioni in continuo cambiamento. I nostri antenati non hanno avuto accesso regolare al cibo per cui dovevano affrontare periodi di digiuno quando il cibo era scarso.
Il nostro organismo ha la capacità di ottenere energia dai carboidrati quando abbiamo a disposizione abbondanza di cibo, ma, in assenza di cibo ha un’eccellente capacità di attivare il metabolismo dei grassi e la chetogenesi che ha come obiettivo non solo la produzione di energia, ma l’attivazione di una serie di sistemi di difesa dallo stress associati alla carestia e delle strategie di sopravvivenza (sistemi antiossidanti, mediatori chimici di controllo dell’infiammazione e dello stress, ottimizzazione delle prestazioni mentali).
Questa capacità di passare da uno stato metabolico all’altro è chiamata “flessibilità metabolica”. Quindi, la domanda importante è: “perché il nostro organismo ha questa flessibilità metabolica in risposta alle oscillazioni della disponibilità di cibo e il microbiota no?”
Consideriamo colture come gli Inuit, che mangiano pochi vegetali. Il loro microbiota è molto robusto, il livello di malattie cardiovascolari e degenerative croniche e oncologiche è molto basso, nonostante mangino prevalentemente cibi grassi (pesci artici, carne di foca, muktuk…), mentre aumenta nelle città dove l’alimentazione è più occidentalizzata.
Il microbiota risponde a ciò che mangiamo. Il microbiota degli Inuit si è sicuramente modificato in risposta all’alimentazione, ma è un microbiota protettivo che assicura il mantenimento della salute. Non sono infiammati, testimonianza il fatto che il rischio di ammalarsi di malattie croniche è basso.
Il microbiota attiva e allena la prima linea di difesa immunitaria, incide sulla nostra salute neurologica e sul nostro metabolismo. Anche se si cerca di trovare uno standard di microbiota collegato alla salute, la modificazione e l’adattamento del microbiota a ciò che mangiamo fa pensare che “un microbiota sano è semplicemente quello che abbiamo quando siamo sani”.
Ciò significa che quello che è sano per una persona potrebbe non esserlo per un’altra. Il cercare di creare degli standard che non tengono conto delle caratteristiche individuali (genetiche, epigenetiche e metaboliche) potrebbe essere fuorviante. Ognuno di noi è un sistema individuale. Devono sempre essere considerati una serie di fattori:
– L’ambiente in cui viviamo (freddo, caldo, umido),
– il cibo che tradizionalmente è stato usato nella coltura in cui siamo vissuti
– la storia che ci contraddistingue
– le situazioni psicologiche ed emotive
– le predisposizioni familiari
– …
Trattare un microbiota perché gli standard dicono che non va bene quando la salute metabolica e generale è buona potrebbe addirittura fare più male che bene.
Numerosi studi parlano di alimentazione ad elevato tenore di grassi (“high fat diet”) e alterazione conseguente del microbiota con sviluppo di alterazioni della permeabilità intestinale, infiammazione, dismetabolismi e obesità. Questi studi sono assolutamente fuorvianti. Innanzitutto, le diete ricca di grassi che vengono somministrate hanno elevate quantità di grassi
che si sommano alla dieta standard a base di carboidrati e quindi diventano pro-infiammatorie per definizione. Associare grassi e carboidrati crea una vera e propria “tempesta metabolica e infiammatoria”. Inoltre, si tratta di diete povere di fibre dove spesso i grassi che vengono somministrati sono olio di soja e altri oli vegetali o grassi idrogenati e non viene ridotta la quantità di zuccheri raffinati. L’olio di soja e gli oli vegetali sono dannosissimi per la salute e sono stati collegati a infiammazione e aumentato rischio cardiovascolare, neurodegenerativo e oncologico. Invece di “dieta a elevato tenore di grassi” bisognerebbe usare il termine “dieta ipercalorica a basso contenuto di fibre” specificando la provenienza delle calorie. Nella maggior parte degli studi viene riproposta una dieta standard americana ricca di zuccheri raffinati, povera di fibre e con grassi di bassa qualità.
Così l’interpretazione generale conferma condizionamenti di 70 anni che affermano la pericolosità dei grassi, senza considerare né la presenza di zuccheri raffinati, né l’associazione di alimenti metabolicamente non compatibili.
Tutto ciò non ha niente a che vedere con una dieta chetogenica che
1) Minimizza l’uso dei carboidrati ed elimina gli zuccheri
2) Utilizza come carburante (e non solo) grassi di elevata quantità
3) È molto moderata in proteine, che sono spesso in quantità inferiore a una dieta convenzionale.
4) Non è, nel modo più assoluto una dieta iperproteica
5) Ha regole ben definite sul calcolo di macronutrienti.
Il metabolismo umano ha la capacità di adattarsi all’assunzione di nutrienti, siano essi carboidrati o grassi e ciò avviene grazie alle capacità di adattamento parallele del nostro genoma (modifica dell’epigenetica) e del microbiota (metagenoma).
La maggior parte degli studi sul microbiota e la dieta chetogenica sono fatti su animali, topi o ratti in particolare. C’è una differenza sostanziale fra le capacità metaboliche dei topi e quelle dell’uomo.
Mentre il topo è “carnivoro” e avrà quindi un sistema digerente e microbiota orientato a quel tipo di alimenti, l’uomo è “lipivoro” (vedi articolo dedicato), ossia l’organismo umano ha una capacità superiore di metabolizzare i grassi ottimizzandone gli effetti, mentre si infiamma se mangia troppe proteine. Anche se nei modelli animali possiamo osservare un trend di cambiamento, con lo studio degli effetti di una dieta chetogenica in tali modelli, non possiamo aspettarci di avere risultati che siano traslabili completamente sull’uomo. Spesso inoltre vengono utilizzati modelli murini fuorvianti, come ad esempio i topi C57Bl/6, geneticamente selezionati per mettere peso e sviluppare dismetabolismi in risposta a un’alimentazione ricca di grassi. È quindi molto importante la “lettura critica” di un lavoro scientifico per evitare che la scelta di modelli non adeguati porti a interpretazioni fuorvianti e non applicabili all’uomo.
Nel 2014 viene pubblicato un lavoro scientifico (David et al.) effettuato sull’uomo dove viene evidenziato un cambiamento radicale del microbota dopo soli 3 giorni di modifica della dieta: sono state analizzate in parallelo una dieta vegetariana e una dieta basata su prodotti animali. Si tratta di uno studio molto importante in quanto ci permette di comprendere come il cibo possa modificare il microbiota in brevissimo tempo. In altre parole, il microbiota evidenzia un’importante “flessibilità metabolica” in risposta al cibo che assumiamo che porta a una modificazione delle popolazioni microbiche atte a metabolizzare il cibo fornito.
La cosa interessante di questo lavoro è come il passaggio da una dieta vegetariana ad elevato livello di carboidrati a una con prodotti animali, non modifichi la alfa-diversità.
In linea con l’ipotesi evoluzionistica, gli autori affermano: “i nostri dati sul rapido cambiamento del microbiota passando da una dieta erbivora a carnivora, riflettono i profili funzionali della pressione selettiva esercitata durante l’evoluzione umana. Il consumo di prodotti animali da parte dei nostri antenati era dipendente dalla disponibilità di questi cibi, mente i cibi vegetali costituivano solo una fonte di “back up” in assenza del cibo animale denso di nutrienti. Il microbiota si è adattato a estrarre energia anche da questi cibi sviluppando una “flessibilità metabolica” in risposta alla necessità”.
In pratica il microbiota si adatta ai cibi con cui lo “nutriamo” e sviluppa caratteristiche più o meno patogenetiche in risposta a cibi di back up.
La dieta chetogenica è stata studiata per i suoi effetti sul microbiota in numerosi modelli patologici.
Nella sclerosi multipla si assiste a un miglioramento dei sintomi che viene attribuito anche alle modificazioni benefiche sul microbiota e sull’asse intestino-cervello. L’effetto della dieta chetogenica sul microbiota è stato bifasico. Nella prima fase si è assistito a una riduzione della biodiversità che migliora però significativamente dopo 12 settimane di dieta con aumento anche di popolazioni batteriche importanti quali il Fecalibacterium prausnitzii. Tale miglioramento correla con il parallelo miglioramento dei sintomi.
Come dimostrato da Jeff Volek, la dieta chetogenica richiede adattamenti che ottimizzano la risposta dell’organismo e che impiegano un certo tempo ad avvenire. Un atleta raggiunge un keto- adattamento ottimale dopo 4-6 mesi di dieta. Non ha quindi senso studiare le modificazioni indotte da tale dieta nel breve termine. Gli studi di 1-3 settimane non possono costituire riferimenti per gli effetti reali della dieta.
Uno studio del 2020 pubblicato dal Dr. Peter Turnbaugh e presentato al 2020 Virtual Microbiome Summit, ha confermato gli effetti benefici della dieta chetogenica sul microbiota. Studiata sull’uomo (17 soggetti in sovrappeso), è stato valutato il cambiamento del microbiota da una dieta di controllo standard a una dieta chetogenica continuata per 4 settimane. La modifica che si è osservata inizialmente è la riduzione dell’abbondanza dei Bifidobatteri e parallelamente una riduzione della prevalenza di linfociti Th17 (proinfiammatori e correlati a numerose patologie autoimmuni) e una aumento di butirrato e beta-idrossi butirrato nel lume intestinale
I linfociti Th17 giocano un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’integrità della mucosa intestinale e contribuiscono a contrastare la prevalenza di patogeni, ma in eccesso favoriscono lo sviluppo di malattie autoimmuni e infiammatorie croniche (es. sclerosi multipla, artrite reumatoide, psoriasi…). Il risultato finale della modulazione dei Th17 è una riduzione dell’infiammazione intestinale e un miglioramento dell’integrità della mucosa.
Un dato molto interessante riguarda il mantenimento del muco intestinale. Il muco ha un importante effetto protettivo della mucosa; una sua riduzione espone la mucosa all’attacco di patogeni e molecole ad azione proinfiammatoria (lectine, glutine…). La dieta chetogenica favoriva il mantenimento di un “robusto” strato di muco e un’adeguata espressione di Muc2, il principale costituente del muco.
La dieta chetogenica è stata molto studiata nel trattamento dell’epilessia, in particolare quando non responsiva al trattamento farmacologico. Studi scientifici recenti hanno dimostrato che gli effetti benefici della dieta (riduzione o eliminazione delle crisi epilettiche) sono mediati anche dalle modifiche del microbiota che avvengono in risposta alla dieta, tra cui l’aumento di Akkermansia muciniphila. Il miglioramento del microbiota incide anche sull’asse intestino cervello e sull’equilibrio dei neurotrasmettitori con aumento dei livelli di GABA (calmante) e riduzione di quelli di glutammato (eccitatorio). Tale aumento del rapporto GABA/glutammato spiega, in parte, la riduzione delle crisi epilettiche e spiega anche perché le persone che fanno questa dieta sperimentino una riduzione dell’ansia e un miglioramento dei ritmi del sonno.
Vi è la percezione errata che la dieta chetogenica non porti abbastanza fibre e che quindi vi sia il rischio di ridurre la produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA) quali ad esempio butirrato e propionato, benefici per la salute intestinale.
La dieta chetogenica riduce la produzione di queste sostanze?
Innanzitutto, le fibre delle verdure sono presenti in buona quantità nella dieta chetogenica, quindi non vi è un reale rischio di ridurre tale produzione, ma vi sono altri meccanismi con cui la dieta chetogenica agisce in modo benefico sulla mucosa intestinale e sul microbiota.
® Una mucosa intestinale sana alloggia un microbiota intestinale sano e viceversa.
® Una mucosa intestinale infiammata favorisce lo sviluppo di disbiosi (alterazioni del microbiota in direzione patologica(infiammatoria), così come la disbiosi intestinale altera l’integrità e la salute della mucosa intestinale
Numerose esperienze con diete estreme come la dieta carnivora dimostrano che l’intestino sopravvive e sta molto bene anche in assenza completa di fibre. Come si spiega questo fatto?
I batteri metabolizzano le fibre per produrre SCFA che hanno effetti sia energetici che “di segnale” (es. attivazione di cascate di segnale intracellulare e modulazione epigenetica), quindi, oltre a nutrire le cellule intestinali, ne modificano positivamente la funzionalità. Il butirrato in particolare fornisce il 70% dell’energia agli enterociti e assicura il mantenimento di una buona integrità della mucosa. Possiamo dedurre come il suo effetto sia fondamentale per il mantenimento della salute e della funzione intestinale.
In una dieta chetogenica non c’è la necessità di produrre SCFA da parte del microbiota perché intervengono altre molecole in grado di fare la stessa cosa anche più velocemente. Il principale chetone prodotto con la dieta chetogenica è il beta-idrossibutirrato. Come possiamo osservare nell’immagine sotto riportata il butirrato prodotto dal microbiota e il beta idrossibutirrato seguono le stesse vie metaboliche per portare energia (e non solo) alla cellula, solo che il beta-idrossibutirrato necessita di un numero inferiore di conversioni enzimatiche, ossia ancora più veloce. Le cellule intestinali possono usare il beta-idrossibutirrato circolane grazie alla presenza del trasportatore MCT1.
In altre parole, in una dieta chetogenica possiamo permetterci di ridurre le fibre grazie al beta-idrossibutirrato circolante, assente in una dieta standard, che permette di sostenere la salute intestinale. Tre molecole possono rimpiazzare gli SCFA: l’isobutirato, l’acetoacetato e il beta-idrossibutirrato.
Fig. Relazione tra il butirrato prodotto dal microbiota e il beta idrossibutirrato prodotto in regime di digiuno o dieta chetogenica
Il contesto fa la differenza.
La dieta standard a base di carboidrati crea uno stato infiammatorio che può essere “parzialmente” corretto dall’inserimento delle fibre che, metabolizzate dal microbiota determinano la produzione di SCFA ad azione antinfiammatoria. Per questo, in una dieta standard le fibre sono fondamentali.
Una dieta a base di grassi e prodotti animali di qualità o una dieta chetogenica ben formulata, hanno un effetto antinfiammatorio, legato alla chetosi nutrizionale, sia sull’intestino che a livello sistemico e non hanno bisogno di fibre per tamponare l’infiammazione. la chetosi nutrizionale è sufficiente ad assicurare la salute intestinale. Le fibre sono utili, ma non necessarie come in una dieta standard.
Il vantaggio di una dieta chetogenica è legato principalmente all’azione antinfiammatoria esercitata dai chetoni ematici.
Se consideriamo quello che succede in una dieta standard dove si utilizzano elevate quantità di fibre, molte persone hanno effetti di gonfiore e di alterazioni della regolarità dell’alvo (diarrea o costipazione anche a fasi alterne) in risposta alle fibre. Inoltre una forte infiammazione intestinale altera la capacità delle cellule intestinali di utilizzare il butirrato che non sarà così in grado di contribuire alla salute intestinale.
In pratica un intestino in salute è in grado di usare adeguatamente il butirrato prodotto dai batteri intestinali e quindi la dieta standard con le fibre è adeguata. Se invece l’intestino è molto infiammato come nel caso di alterazioni importanti di mucosa, di disbiosi con riduzione dei batteri butirrato-produttori, o di malattie infiammatorie croniche dell’intestino (morbo di Crohn, colite ulcerosa, IBD…), allora l’introduzione di una dieta chetogenica (o del digiuno) potrebbe permettere il recupero dello stato infiammatorio. Questo può avvenire grazie alla maggiore capacità, per la presenza dei trasportatori MCT1, di ottenere il beta-idrossibutirrato dal circolo sistemico che eserciterà “dall’interno” un effetto antinfiammatorio e di recupero dell’integrità di mucosa.
Il recupero della salute della mucosa intestinale permetterà, conseguentemente, di migliorare anche l’assetto del microbiota.
Un’altra interpretazione errata degli effetti della dieta chetogenica è legata all’idea che i grassi aumentino la permeabilità intestinale e quindi il passaggio di batteri intestinali nel circolo ematico e l’infiammazione sistemica indotta da LPS (presenti sulla parete dei batteri gram negativi).
Per comprendere questo dobbiamo conoscere come i grassi vengono digeriti e assorbiti.
Quando mangiamo grassi il corpo produce un ormone chiamato colecistochinina (CCK) che stimola la vescicola biliare a secernere la bile rilasciandola nell’intestino tenue. La bile “avvolge” le molecole di grassi e permette la loro emulsione.
Gli LPS hanno un’elevata affinità per queste “micelle idrosolubili” che possono dffondere attraverso l’epitelio. Le cellule epiteliali “impacchettano” i lipidi e gli LPS nei chilomicroni che vengono esportati dal fegato al sistema linfatico e vanno in circolo. Quando consumiamo acidi grassi a catena lunga il nostro corpo costruisce molti chilomicroni che portano in giro i grassi e gli LPS.
1) Numerosi studi dimostrano che il trasporto degli LPS nei chimomicroni offre un vantaggio all’organismo perchè li porta via dal fegato riducendone la tossicità
2) I chilomicroni hanno la capacità innata di inattivare gli LPS riducendo l’infiammazione da essi indotta sulla mucosa intestinale
3) Il problema degli LPS in circolo non è legato alla loro inclusione nei chilomicroni, ma al passaggio dall’intestino alla circolazione sistemica a causa di un’alterata permeabilità intestinale (leaky gut). In questa situazione vi è un’elevata quantità di LPS che raggiunge il circolo sanguigno e i tessuti e li infiamma contribuendo allìinfiammazione di basso grado, ai dismetabolismi e alle malattie croniche.
Questo può spiegare un altro meccanismo attraverso il quale la dieta chetogenica contribuisce a ridurre l’infiammazione sistemica.
Un’altra obiezione alla dieta chetogenica è la possibile alterazione del microbiota e della mucosa legata alla stimolazione della produzione e secrezione biliare indotta dai grassi.
In linea generale possiamo affermare che più grassi mangiamo, più bile rilasciamo nell’intestino tenue. Alcuni studi affermano che alte concentrazioni di bile rilasciata a livello intestinale possono contribuire a un’alterata permeabilità intestinale.
In realtà, adeguate quantità di bile supportano le funzioni e la salute della mucosa intestinale, inducono la secrezione di muco da parte delle cellule di Goblet, promuovono la migrazione delle cellule intestinali e l’attivazione del sistema immunitario, prima linea di difesa.
Inoltre, gli acidi biliari hanno proprietà antimicrobiche e contribuiscono alla modulazione del microbiota, proteggendo dalla disbiosi del tenue.
Gli acidi biliari hanno effetti positivi sull’attivazione della secrezione di serotonina da parte delle cellule enteroendocrine con effetto di regolazione della peristalsi intestinale.
Recentemente sono state proposte estremizzazioni della dieta chetogenica come la “dieta carnivora” come rimedio universale per le patologie croniche.
Teoricamente è possibile ottenere tutto ciò che ci serve da una dieta basata sui soli prodotti animali, ammesso che si mangi l’animale dalla testa ai piedi, ossia che si consumino tutte le parti dell’animale.
La dieta carnivora (nel breve termine) è stata associata a un’aumento dell’espressione di geni batterici per la biosintesi delle vitamine e a una risoluzione pressoché completa dei sintomi di malattie autoimmuni, metaboliche e infiammatorie croniche. La riduzione dell’infiammazione intestinale porta a una migliore digestione e assorbimento dei nutrienti.
Altri benefici descritti sono il miglioramento dell’equilibrio ormonale e della fertilità, e neurologico.
Tuttavia, non c’è evidenza che i nostri antenati utilizzassero solo prodotti animali e non utilizzassero vegetali. Le popolazioni rurali africane utilizzano anche vegetali, come le fibre di baobab e andando all’estremo opposto, gli Inuit fanno grandi spostamenti per procurarsi piante in grado di migliorare la loro fertilità e salute. Questo fa pensare che nessuna estremizzazione sia effettivamente sana nel lungo termine, soprattutto perché, se parliamo di dieta carnivora, attualmente viene consumata la carne (il muscolo) e molto meno gli organi e le interiora. Sicuramente una dieta carnivora che elimina le sostanze con potenziale infiammatorio presenti nei vegetali, in presenza di un’infiammazione intestinale, può portare a grossi miglioramenti. La durata di tale dieta deve poi, a mio avviso, essere studiata sul caso specifico e non generalizzata. Certo è che se vogliamo migliorare velocemente l’infiammazione intestinale, a volte, togliere tutti i vegetali e mantenere solo grassi e proteine per un periodo di 7-10 giorni, può essere una via molto veloce ed efficace.
Per il resto, una volta recuperata la salute, la dieta ideale dovrebbe probabilmente includere una adeguata quantità di vegetali
Detto questo, per concludere, non c’è evidenza che una dieta chetogenica abbia effetti dannosi sul microbiota, anzi, gli studi sembrano affermare esattamente il contrario. Le modifiche indotte dalla chetosi sul microbiota potrebbero essere proprio uno dei meccanismi attraverso cui questa dieta migliora l’infiammazione e permette di recuperare la salute.
Non sappiamo esattamente cosa significhi “microbiota sano”, ma sappiamo che la dieta chetogenica è in grado di migliorare la salute intestinale indipendentemente dalla produzione di SCFA da parte del microbiota.
Con questo non voglio dire che la dieta chetogenica sia la dieta ideale per tutti, ma per molte situazioni potrebbe essere veramente risolutiva. Conoscere i meccanismi biologici alla base del suo funzionamento permette di essere obiettivi quando si decide di utilizzarla.
La demonizzazione di tale dieta in assenza di conoscenza non è utile, per questo è importante fare chiarezza. Non esiste giusto o sbagliato, esiste il contesto che può essere diverso per ognuno di noi e che va valutato prima di prendere decisioni.
Consigli quando si decide di adottare una dieta chetogenica
– Usare grassi e proteine di alta qualità
– Evitare gli oli vegetali
– Evitare eccessive quantità di semi oleosi e frutta secca
– Evitare i cibi ultraprocessati e i sostituti dei pasti
– Evitare le scorciatoie come i chetoni esogeni (se non in particolari casi) per evitare l’effettuazione di una dieta ben formulata
– Evitare gli edulcoranti chimici e le bibite “zero”
– Usare vegetali in quantità adeguata e sulla base delle risposte dell’organismo (che sono sempre personali)
Inoltre, è importante sperimentare sempre a livello personale sia i diversi cibi e le risposte dell’organismo, sia le quantità di macronutrienti che permettono di mantenere uno stato di chetosi lieve (benefico in termini di infiammazione soprattutto nel lungo termine).
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